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I giovani fanno la valigia.
Franck McCourt: la miseria che ho raccontato io è un’altra cosa .
Le ceneri di Limerick
Redditi record, Eden delle multinazionali. Questa era la città-simbolo del miracolo Irlanda. Ora è tutto finito.
Pat Curtis potrebbe parlare per ore. Ha ventitre anni, fa l’operaio, porta la polo slacciata, un giubbino leggero, lo sguardo serio di chi prima di diventare maggiorenne era già in catena di montaggio. Fa freddo nel cortile della sua fabbrica, e la tettoia di plexiglas sotto la quale ci ripariamo non basta a tenere a bada la pioggia. Noi dai brividi abbiamo smesso di fare domande. Pat potrebbe parlare per ore: «Noi irlandesi accettiamo tutto, e anche se ci licenziano non muoviamo un dito. Sa perché? Perché siamo contenti solo quando andiamo a fondo». Il fondo per noi è questa pioggia di ghiaccio, per Pat invece è il maggiore esportatore del paese, la seconda azienda d’Irlanda, che trasferisce all’estero dieci linee produttive mandando a casa 1.900 operai. Si tratta della texana Dell computer, che sbarca sull’isola nel 1990 e l’8 gennaio 2009 si accorge che a Lodz, in Polonia, un operaio lo paghi tre euro all’ora. Molto meno dei 12 euro che pretendono a Limerick, in Irlanda: «Adesso tocca a quelli di Dell, ma a luglio vado a casa anch’io che da sei anni lavoro per un’azienda dell’indotto» dice Pat Curtis. «Per me non mi preoccupo: sono giovane, mi rimetterò a studiare. Ma ora so che lavorare con lealtà non porta a nulla: ci dicevano di non creare problemi perché se no se ne andavano. E se ne vanno comunque».
Dal miracolo al panico. Per anni l’Irlanda è stata la prima della classe, la tigre celtica che a forza di fondi europei e sgravi fiscali passava dal tirare a campare all’euforia del mercato: nel 1988 l’Economist la definiva «la più povera tra i ricchi», nel 2006 le statistiche della Ue le assegnavano un reddito pro capite secondo solo a quello del Lussemburgo. Anni di duro lavoro e consumo improvviso: «C’era molta frenesia» ci dice Niamh Hourigan, giovane ma già quotata sociologa dell’Università di Cork. «Che mimetizzava la paura che tutto potesse finire all’improvviso. Mio marito è svizzero, e mi dice che a Ginevra non ha mai visto l’assalto ai centri commerciali del nostro sabato pomeriggio». È stato un boom lungo, sorprendente, straordinario. Ma bisogna parlarne al passato: nel 2007 i primi scricchiolii, a marzo 2008 un Saint Patrick’s day da brivido con la Borsa che brucia 3,5 miliardi di euro, lo scorso 15 gennaio la nazionalizzazione della terza banca del paese che in dodici mesi era passata da 17 a 0,22 euro ad azione: «Pensare che solo un anno e mezzo fa i partiti di governo hanno vinto le elezioni in nome della stabilità e la competenza economica» si indigna Karan O’Loughlin, dirigente di Siptu, il maggiore sindacato irlandese. Si è sgonfiata la bolla finanziaria, è saltato il bluff immobiliare, per quest’anno si prevede un crollo dei prezzi delle case vicino all’80 per cento. A chiudere il quadro mancavano solo i frutti velenosi della globalizzazione, con le multinazionali che guardano altrove per tagliare i costi e salvare la competitività. Ovunque, ma via dall’Occidente, dall’Irlanda, da Limerick
Piove ancora, fa sempre più freddo e all’ufficio di collocamento ci mostrano le ultime statistiche sulla disoccupazione in città: in un anno i senza lavoro sono aumentati del 65 per cento. Con un viatico del genere, quando torniamo per strada e ricominciamo a gocciolare, ci vuole niente a farci sentire nei panni umidi di Frank McCourt. Sì, perché per il resto del mondo Limerick è soprattutto la protagonista delle Ceneri di Angela, il romanzo che ha incantato dieci milioni di lettori raccontando di una città tormentata da «grandi quinte di pioggia» e di «un’infanzia infelice irlandese e cattolica» di settant’anni fa. McCourt oggi vive a New York, e a Io donna dice che la Limerick che vediamo noi è una ricca città del XXI secolo «mentre quella in cui sono cresciuto io era misera e vittoriana. La differenza è che oggi la gente ha le scarpe ai piedi, capisce?». E che i palazzi sono di vetro e acciaio, i mulini hanno fatto spazio agli alberghi, il centro pedonale è riservato allo shopping: «E soprattutto che non ci sono più tutti quei preti e quelle suore che terrorizzavano la nostra esistenza». Per McCourt oltre alla povertà il boom della “tigre celtica” ha cacciato una pletora di fantasmi: «Il cattolicesimo irlandese non è come quello italiano. Voi non vi prendete mai troppo sul serio, mentre per noi l’inferno era ovunque. Non ho nostalgia per quei tempi, e penso che il progresso economico almeno a questo è servito: gli irlandesi non hanno più paura». Il Pil potrà anche diminuire del 4,5 per cento (previsioni per il 2009), il disavanzo pubblico crescere fino al 9,5, ma Angela non abbasserà più la testa: «Anche se i nostri giovani dovessero emigrare, se ne andrebbero nel mondo forti della loro istruzione, e privi di quel senso di colpa con cui la Chiesa ha tenuto in pugno la mia generazione». Un messaggio limpido, quasi una pacca di incoraggiamento. Eppure Limerick non ama le sue ceneri, e solo a sentire nominare Frank McCourt i più arricciano il naso e si affannano a spiegare che la città di cui parla lui probabilmente non è mai esistita. C’è addirittura chi ha spulciato il best seller arrivando a contare 117 imprecisioni di nomi, luoghi, opere e omissioni: «La verità è che McCourt ha riaperto una ferita dolorosa» ci spiega la sociologa Hourigan. «Chi è sopravvissuto a quella miseria non ama che gliela si ricordi a tanti anni di distanza».
In tempo di crisi le ferite bruciano più del solito. Una è McCourt, lo scrittore che ha regalato alla città una fama sgradita. Un’altra è Moyross, il quartiere che in tutta l’Irlanda vuole dire violenza, droga, emarginazione. Qui anche negli anni migliori la disoccupazione sfiorava il 30 per cento, e anche adesso che i licenziamenti sono più degli investimenti le cose seguono un corso a se stante: «I reati a Moyross stanno diminuendo drasticamente» ci dice Allen Meagher, che nell’area ha lanciato il progetto di editoria sociale Changing Ireland. «Mentre a non cambiare sono il pregiudizio e l’esclusione sociale». Per farci capire di cosa parla, Allen ci carica sulla sua Volkswagen: si fa presto a notare che il quartiere è circondato da mura, in certi tratti da una doppia fila di mura su cui spicca l’avvertenza a tenersi alla larga dal filo spinato. Siamo nella Belfast dei troubles, nella Beirut della guerra civile? Semplicemente nella Limerick appena fuori dal boom, appena dentro la crisi. Oltre il muro ci sono le residenze del Parco Tecnologico, gioiello del sistema universitario cittadino; al di qua duemila persone divise tra chi nell’esclusione ci sguazza e chi non sa più a che santo votarsi. Il governo di Dublino aveva appena lanciato un ambizioso Regeneration project. La preoccupazione è che la crisi si porti via anche i fondi per sanare l’ultimo quartiere in cui McCourt potrebbe ambientare il sequel del suo disperato romanzo.
Ma ce la farà l’Irlanda? E ce la farà Limerick? In città sono in molti ad avere già un nipote in Australia, un figlio in Canada, uno zio nella Russia di Putin. Dopo anni di immigrazione polacca, l’ironia vuole che comincino a farsi vedere anche aziende di Varsavia a caccia di disoccupati irlandesi. Ma nessuno getta la spugna: al freddo di gennaio, in O’ Connell street c’è chi aspetta l’autobus con il piumino d’oca, chi spinge carrelli in maniche di camicia. Michael O’ Donnell, che da dieci anni accompagna i turisti sulle orme dei personaggi di Frank McCourt, dice che gli hanno chiesto se non stiano tornando i tempi delle ceneri di Angela. Lui ammette che non lo sa. Ma di una cosa è sicuro: «Noi irlandesi siamo gente tosta. Ne abbiamo viste di peggiori".
Raffaele Oriani 27 gennaio 2009
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